Qualche giorno fa ho tolto dal mio telefono cellulare tutte le notifiche possibili. Prima ricevevo un avviso ogni volta che qualcuno mi citava o riprendeva un mio pensiero sui social o mi arrivava una mail. L’ho fatto dopo un viaggio in treno da Fidenza ad Alessandria. Era un treno regionale pieno di pendolari. Gente che si conosce, anche solo di vista, che si incontra spesso. Bene, non volava una mosca. E il silenzio non era dato dal fatto che era mattina presto e tutti erano assonnati. Anzi, mi sembravano sveglissimi.

Ho contato ventisei persone, che via via sono aumentate con il procedere delle fermate. Nessuno ha mai guardato la campagna dal finestrino, nessuno ha scambiato una parola con un altro. Tutti concentrati sui loro smartphone e sui loro tablet. Tutti a leggere qualcosa di importante e irrinunciabile. Tutti con suonerie che rimandano melodie rarefatte, quasi futuristiche, dentro un vagone di quarant’anni fa sciatto e freddo, dai vetri macchiati, dai sedili consumati.

Avevo davanti tre livelli di tempo. La campagna fuori: immobile e uguale da sempre, in quella pianura nebbiosa che alternava tralicci, pioppi e qualche cascina. Il treno lento e inadeguato che rievocava un mondo che ignora del tutto la modernità dei Freccia Rossa. E poi un’umanità che si lasciava distrarre di continuo da notifiche di sms, avvisi di campanelli, di chitarre, campagne tubolari, corni inglesi, tritoni. Solo i più vintage rispondevano ancora al bip-bip dei vecchi Nokia. Non ho visto un quotidiano o un libro. Non ho visto un mazzo di carte (vecchia occupazione dei pendolari), non ho visto uno sguardo di curiosità, e se qualcuno ha sorriso lo ha fatto in risposta a uno schermo che lampeggiava.

A cosa rispondevano? A chi scrivevano? Cosa leggevano? In quel concerto di notifiche rispondevano a qualcosa che alle sette e venti del mattino sembrava arrivare da un mondo che non esiste. Qualcosa che ti occupa la mente senza entrarti nella testa. Qualcosa, in una parola, di quasi sempre rinviabile.

Il rinviabile eppure indispensabile è la modalità dell’attenzione di questo tempo. Non c’è più il momento giusto per leggere una cosa, per sfogliare un gruppo di fotografie, per sapere cosa hanno fatto amici e conoscenti nelle ultime dodici ore. Il momento è sempre quello giusto. Il tempo non è più fluido, non è un mare dove nuotare, ma ogni secondo è staccato dall’altro, ogni attenzione non è connessa a quella dopo: passi da un “tutto bene?” via sms a una notizia di cronaca, a una foto su facebook pubblicata da qualcuno che non conosci, ma è magari amico di un tuo amico, a una citazione su twitter. I telefoni neppure squillavano, quella mattina. Nessuno dialogava e nessuno parlava con qualcun altro anche soltanto al telefono. E nessuno cercava qualcosa attorno a sé – un viso, un dettaglio del paesaggio – che lo potesse distrarre dalla loro distrazione. Tutti intenti a trovare quello che non cercavano, ciò che non è necessario. Tutti incapaci di oscillare tra concentrazione e distrazione.

Abbiamo fatto della distrazione la nuova norma. Ma se tutto è distrazione dal reale, niente è distrazione. Francesco Soave è stato un filosofo italiano vissuto tra Lugano e Milano nel Settecento ormai dimenticato. Ma fu importante anche perché era stato l’educatore di Alessandro Manzoni. Fu un pioniere della didattica. In una sua opera su John Locke, di cui era un estimatore, rifletteva sulla concentrazione e distrazione nei fanciulli: «Non ho finora scoperto altro mezzo di fissare la mente ad una cosa… Se osservasi la condotta dei Fanciulli, si vede, che anche quando più stanno in guardia, si lascian rapire da mille pensieri frivoli che li assediano da ogni parte».

Stare in guardia e distrarsi è una dialettica della vita. Siamo tutti concentrati a distrarci. Ed è il contrappasso della modernità e della tecnologia che toglie ogni piacere e ogni verità alla vita.